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 › Ansia e Attacchi di Panico › Shopping compulsivo: l’acquisto e i bisogni emotivi – Repubblica.it

Shopping compulsivo: l’acquisto e i bisogni emotivi – Repubblica.it

Redazione Ottobre 4, 2018     No Comment    

Shopping Compulsivo

Shopping Compulsivo

Shopping compulsivo: i dati del sondaggio

Curioso, il sondaggio che ha coinvolto 18mila capifamiglia tra i 22 e i 60 anni provenienti da 20 Paesi e dal quale emergono dati interessanti per quanto riguarda lo shopping compulsivo. Lo ha condotto la compagnia specializzata in traslochi Movinga a partire da domande come questa: “Quale percentuale del tuo guardaroba non hai indossato negli ultimi mesi? Quale percentuale dei tuoi acquisti alimentari finisce tra i rifiuti? Quale percentuale delle tue cose non hai ancora utilizzato da quando hai traslocato?”. Successivamente, le risposte sono state confrontate con i dati forniti dagli specialisti nel campo dei rifiuti e dell’accumulo. Per l’abbigliamento, ad esempio, è stato fatto l’inventario del guardaroba dei partecipanti, che sono stati seguiti quotidianamente 12 mesi per registrare le cose inutilizzate nell’arco di un anno.

Dallo studio emerge che le persone spesso non hanno la percezione reale di quello che sprecano o che non utilizzano e che dunque sottostimano la questione (in Italia ad esempio, per quanto riguarda l’abbigliamento, la percezione dei capi non indossati è del 28%, secondo gli esperti è dell’81% con un’illusione stimata del 53%; per quanto riguarda il cibo invece la percezione del cibo sprecato è dell’8%, la valutazione degli esperti è del 13% con un’illusione stimata del 5%).

Shopping compulsivo e disturbo da accumulo: l’intervista alla dottoressa Todaro

Dottoressa Todaro, cosa pensa di questo studio?
“I risultati di questa indagine appaiono fortemente condizionati dalla cultura di riferimento. Ci sono Paesi che danno più valore all’aspetto del consumo del cibo (ad esempio gli Stati uniti sprecano molto, l’Italia tende invece a sprecare altri tipi di prodotti), altri che puntano più ad accumulare abiti e accessori. Per un italiano il cibo è associato soprattutto a un aspetto di aggregazione sociale, di tradizione e qualità. Per lo statunitense il mangiare è molto più legato alla quantità o al fatto stesso di consumare del cibo. Pensiamo ad esempio al tipico newyorkese che mangia camminando: la cosa più importante per lui non è gustarsi un pasto o fare una pausa, ma consumare del cibo, che gli serve semplicemente per arrivare a fine giornata. Il concetto che esprime la ricerca si riassume in due parole chiave, accumulo e spreco. Sono due concetti sequenziali, perché entrambi rappresentano un funzionamento per cui l’acquisto non è motivato da un bisogno, ma dalla necessità di consolidare una percezione, un’emozione o una valutazione su se stessi. Il possesso e l’uso sono soggetti a ridefinizione: sarebbe sbagliato dire che una persona che compra 10 cose non ne abbia bisogno, perché quella persona sente di averne bisogno. Il punto è che non ne ha oggettivamente bisogno, ma ne ha emotivamente bisogno”.

Che differenza c’è tra un bisogno oggettivo e un bisogno emotivo?
“Una persona che soffre di sindrome da shopping compulsivo o da disordine da accumulo, sosterrà di aver bisogno di dieci cose dello stesso tipo. Nessuna spiegazione razionale potrà convincerla di non averne bisogno oggettivamente. La chiave sta nell’aiutare questa persona a capire la differenza tra ciò che gli serve veramente e ciò che la fa stare tranquilla”.

Perché ad alcune persone servono queste 10 cose per stare tranquille?
“Perché danno loro la sensazione di avere potere, di avere controllo, di possedere qualcosa. Questo soprattutto per quanto riguarda la sindrome da shopping compulsivo. Si tratta di un disturbo che ha a che fare con disturbi dell’umore, come la depressione, o con disturbi d’ansia”.

A cosa è legato invece il disturbo da accumulo?
“È legato alla sensazione di controllare una serie di cose, la propria storia: io posso conservare i jeans di quando avevo 16 anni ma che non entrano più. Il punto è che, tenendo quei jeans, io sento di possedere concretamente i ricordi associati a quei pantaloni. Buttarli dà la sensazione di separarsi dalla propria storia”.

Facciamo un esempio concreto.
“Per capire se si tratti di un comportamento patologico va tenuto in considerazione che “il troppo” conduce a una patologia. Se nel mio armadio ci sono jeans che indossavo dai 5 ai 30 anni – io ne ho 60 paia e non solo non mi entra nessuno di quei jeans, ma non li indosso più da tempo – il fatto di non ricavare lo spazio per delle magliette di cui ho bisogno è indicativo di una patologia. Nei casi mostrati nel docu-reality “Sepolti in casa” ad esempio ci sono persone che hanno difficoltà a muoversi in casa per le cose che accumulano. L’accumulo è patologico quando diventa un fattore invalidante nella propria vita quotidiana”.

Perché non riusciamo a lasciar andare alcuni oggetti o vestiti?
“Spesso investiamo affettivamente su alcune cose, con le quali magari proviamo piacere nell’avere un contatto sensoriale. Perderei qualcosa se buttassi quelle cose. L’affezione rispetto a degli oggetti o a dei vestiti fa parte della normalità, soprattutto se le cose che conservo non interferiscono con la mia vita e non tolgono posto a nuovi oggetti o vestiti. I bambini piccoli ad esempio, quando devono iniziare a dormire da soli nel proprio lettino possono aver bisogno di una copertina con l’odore della mamma, è un modo per sentire la persona con cui abbiamo un legame. Da adulti impariamo che si può sentire una persona anche senza aver bisogno di un oggetto materiale, ma in alcuni casi abbiamo bisogno di oggetti – dai quali però non siamo dipendenti – che ci legano a qualcuno. In natura l’accumulo è una strategia molto diffusa. Pensiamo agli scoiattoli che mettono da parte le ghiande per l’inverno. È un comportamento sano, perché accumulano e poi consumano quello che hanno accumulato”.

A cosa sono associate invece la sindrome da shopping compulsivo e la delusione post-acquisto?
“Nella nostra cultura la possibilità di spendere soldi è associata ad avere un valore e un potere. Nell’acquisto compulsivo c’è la ricerca di sensazioni, come adrenalina e onnipotenza (“Posso comprare tutto”). Ma sono sensazioni che subito dopo diventano spiacevoli, perché le persone si sentono fuori controllo. Non possono farne a meno perché, così come avviene in tutte le dipendenze, le persone si trovano a mettere in atto un circuito che inizia con l’euforia, prosegue con il senso di colpa (“Ho speso troppo”) e con una serie di sensazioni spiacevoli (preoccupazione, angoscia) che possono essere superate solamente con la ricerca di altra euforia. L’aspetto patologico di questo circuito viene dal fatto che la persona riesce a consolarsi solo attraverso la messa in atto dello stesso comportamento”.

Come si può interrompere?
“Come nel caso della dipendenza dalle sostanze, nello shopping compulsivo si devono applicare soluzioni molto pratiche associate alla gestione dell’ansia o della depressione (ad esempio mettere un blocco alla carta di credito o uscire di casa con i soldi contati). La persona che soffre di questo disturbo deve imparare a sentirsi sicura, gratificata e in equilibrio anche senza mettere in atto un comportamento che la danneggia. Deve andare alla radice della sofferenza che manifesta. A prescindere dalla disponibilità economica, le persone devono sentirsi gratificate “con” e “senza” qualcosa: nella mia vita posso decidere di acquistare molte cose per poi godermi quegli acquisti. La persona che soffre di acquisto compulsivo non si gode il vestito che compra, quello è solo un comportamento ripetitivo che non dà pace”.

Cosa proiettiamo nel vestire?
“L’espressione di noi stessi, il nostro stile, le nostre aspirazioni. Magari una persona solitamente indossa le scarpe basse ma il tacco 15 se lo compra perché aspira ad andare da qualche parte con quei tacchi. Possiamo sentirci gratificati, dopo aver lavorato tanto, nel concederci qualcosa. Tutto questo fa parte dalla normalità perché è seguito dal piacere. Chi soffre della sindrome da acquisto compulsivo non prova piacere ma pensa già all’acquisto successivo. Il punto è comprare, è per questo che è un disturbo. Gli oggetti materiali sono la punta dell’iceberg, sotto c’è una sofferenza di altra natura”.

Lo shopping compulsivo è alimentato anche dalla società in cui viviamo?
“Assistiamo a un meccanismo un po’ perverso della società dei consumi. Da una parte le aziende e le agenzie pubblicitarie definiscono dei prodotti, ma allo stesso tempo definiscono le nostre esigenze. Ci portano a pensare di aver bisogno di qualcosa di cui poi effettivamente non avremmo bisogno. Magari io ho uno smartphone che funziona benissimo, ma non fa le foto a una determinata risoluzione, per questo potrò arrivare a comprarne un modello diverso”.

Se ci soffermiamo sull’Italia cosa emerge dalla ricerca?
“L’abbigliamento è un fattore su cui gli italiani sprecano molto: questo perché l’italiano associa la possibilità di avere un ampio guardaroba al potere sociale. Molte delle aspirazioni stereotipate degli adolescenti sono basate sulla possibilità di avere una stanza per il guardaroba, un po’ come accade a Carrie di “Sex and the City” o nei video della Ferragni. L’idea alla base è che, comprando un prodotto, compriamo il significato che gli attribuiamo. Una logica che ci porta fuori strada rispetto ai nostri effettivi bisogni”.

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