La Corte di Cassazione civile, sezione lavoro, attraverso la recente sentenza dell’8 giugno 2015, n. 11789 si è espressa negativamente riguardo al ricorso proposto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e dall’Agenzia del territorio, e li ha condannati, in definitiva, a pagare le spese processuali ritenendo le loro pretese del tutto infondate.
Tali doglianze si ricollegavano ad una causa promossa da un loro dipendente la quale aveva trovato accoglimento, sia dal giudice di prime cure, il Tribunale di Grosseto, che dalla Corte d’appello di Firenze.
La vertenza in questione riguardava una fattispecie di mobbing verificatasi nei confronti di un lavoratore che aveva subito atti vessatori da parte dei suoi colleghi a partire dal novembre 1997. Tale fatto accadeva in quanto da poco tempo gli era stata diagnostica “un’infiammazione alle vie aeree” ed il datore di lavoro era stato sollecitato, dall’azienda sanitaria, a tutelare i propri dipendenti dai rischi di fumo passivo ed a prendere le dovute cautele per evitare la loro esposizione a tali inalazioni.
Nel caso de quo, però, il datore di lavoro non aveva adoperato alcuna precauzione per far si che il lavoratore non fosse soggetto all’esalazione di fumo emesse dalle sigarette degli utenti dell’azienda nonché degli altri colleghi e del suo stesso capo reparto.
Per tali ragioni, il dipendente si era ritrovato in una circostanza tutt’altro che gradevole dove non trovava nessun supporto per la sua malattia, neppure dai colleghi più stretti.
Al contrario, il lavoratore era spesso oggetto di comportamenti denigratori da parte dei suoi colleghi che lo definivano “petulante” e “meticoloso”. Non mancavano, inoltre, manifestazioni pubbliche di beffeggiamento, quali ad esempio “l’affissione nella bacheca aziendale della richiesta del lavoratore di essere sottoposto a visita medica; il cambio delle chiavi della sua stanza senza prima avergli consegnato quelle nuove” ed altre.
I Giudici della Suprema Corte hanno quindi cristallizzato quanto pronunciato dalle sentenze emesse dai giudici dei precedenti gradi di giudizio, confermando la condanna ad un risarcimento del danno di 50.000 euro da parte dei datori di lavoro. Con riferimento alla condotta dei ricorrenti veniva espressamente sancito che: ” essa non esclude l’illiceità del comportamento posto in essere nei confronti del lavoratore ma eventualmente incide sulla ripartizione interna della misura della responsabilità di ciascuno dei coobbligati.”
Precedentemente, la Corte d’Appello di Firenze, ai fini di illustrare le condizioni di malessere del dipendente, esponeva quanto segue: ” il lavoratore, in data 8 aprile 1999 aveva faticato a farsi assegnare mansioni confacenti all’inquadramento; (…) con un nuovo verbale del 15 giugno 2001 in sede giudiziale l’Agenzia del territorio assunse una serie di obblighi per far rispettare il divieto di fumo e per tutelare maggiormente la posizione professionale del lavoratore fino a che nell’ottobre 2001 il lavoratore decise di lasciare l’ufficio distaccandosi presso il Comune.” Gli stessi giudici di secondo grado avevano oltretutto comprovato dal c.t.u un’invalidità permanente del dipendente pari al 13% ” come lesione all’integrità psicofisica del soggetto e il danno esistenziale quale peggiorata qualità di vita”.
In conclusione, gli ermellini, avendo preso conoscenza di quanto esposto dai precedenti gradi di giudizio, e delle modalità chiare e palesi in cui la vicenda si sviluppava oltre che delle conseguenze che da questa derivavano, per tutelare la vittima in questione, non potevano far altro che riconfermare quanto già sentenziato e rigettare il ricorso dei proponenti, condannandoli a pagare le spese processuali previste dalla legge.