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 › Mobbing › Mobbing post partum, ecco cosa fare – LetteraDonna

Mobbing post partum, ecco cosa fare – LetteraDonna

Redazione Luglio 31, 2015     No Comment    

Prima regola: vietato sopportare. Poi è utile circondarsi delle persone giuste e raccogliere le prove. Così si vince la battaglia psicologica contro chi vuole spingere le neomamme a licenziarsi.

 

Il mobbing post-partum? Molto più diffuso di quanto si pensi. Nonostante le tutele della legge, la riforma del mercato del lavoro prevista dalla 92/2012 protegge infatti le madri dal licenziamento durante la maternità,  il cosiddetto ‘mobbing da rientro’ è il nemico più temuto dalla neomamma. Torni dopo sei-nove mesi di maternità e pare che il tuo ufficio ti abbia dimenticata o subito sostituita, all’improvviso la tua mansione è inutile o accessoria e nessuno sembra interessato ad aggiornarti su quanto successo nella tua assenza. Il fenomeno è difficile da far rientrare nelle statistiche ufficiali dei licenziamenti perché spesso frutto di una sottile guerra psicologica che resta fuori dalle aule dei tribunali e dalle vertenze dei sindacati, come ci confermano le legali che abbiamo intervistato.

IL MOBBING: CHE COS’È?
«Molto spesso il comportamento del datore di lavoro ma anche, purtroppo, di alcuni colleghi comporta l’isolamento della lavoratrice che rientra dalla maternità, il cambio di mansioni, spesso di livello inferiore o lo svolgimento di compiti degradanti, il cambio di orario che crea difficoltà nella gestione del figlio al fine di ‘incentivare’ le dimissioni della lavoratrice, il mancato progredire in carriera rispetto ad altri nelle stesse condizioni, e via dicendo. Sono comportamenti tanto gravi
quanto illeciti», commenta l’avvocato Albertina Gavazzi. Ma quando si può parlare esattamente di mobbing? «Con il termine mobbing si indica una pratica persecutoria o, più in generale, di violenza psicologica perpetrata dal datore di lavoro o da colleghi (mobber) nei confronti di un lavoratore (mobbizzato) per costringerlo alle dimissioni o comunque ad uscire dall’ambito lavorativo», spiega il legale. Il mobbing è considerato dall’Inail una malattia professionale ma per essere definito tale deve essere continuo e duraturo. «Può essere di tipo verticale, quello cioè messo in atto da parte dei datori di lavoro verso i dipendenti per indurli a dare le dimissioni, o di tipo orizzontale, quello praticato dai colleghi di lavoro verso uno di loro per varie ragioni».

NON SI DEVE SOPPORTARE
«L’unico comportamento che la lavoratrice madre non deve tenere è quello di stare zitta, di accettare supinamente queste prevaricazioni, di rinunciare a tutelare i propri diritti e andarsene dal posto di lavoro, ma deve denunciare la discriminatorietà della condotta del datore di lavoro o dei colleghi», risponde decisa l’avvocato Gavazzi. La legge italiana prevede infatti la tutela giudiziaria. Bisogna però contattare le persone giuste per far valere i propri diritti». Sono quattro le figure da tenere ben presenti: un buon avvocato, civilista e giuslavorista per questioni civili attinenti al rapporto di lavoro, la consigliera di pari opportuntà della Regione, che ha il compito di far rispettare sul territorio l’equo trattamento, anche contributivo, ed è garante che non vi siano diseguaglianze tra i generi nell’accesso al lavoro, i sindacati (anche per il supporto durante l’eventuale pratica legale contro il datore di lavoro), la clinica del lavoro. Quest’ultimo aspetto non va sottovalutato: «Medici esperti valutano i danni che la lavoratrice subisce a causa del mobbing (certificazioni utili per un eventuale causa legale) e propongono medicine o supporti psicologici di aiuto per uscire dalla fase di depressione, stress e tensione che il mobbing comporta in chi lo subisce», conclude l’avvocato Albertina Gavazzi.

QUANDO LA DISCRIMINAZIONE DIVENTA PRASSI
A Paola Dorenti, che lavora nella produttiva Brianza, è capitato molte volte di dover difendere neo-mamme vittime di mobbing: «Il mobbing ‘post-partum’ è quasi una prassi, nelle piccole come nelle grandi aziende: la madre-lavoratrice viene svilita a livello professionale a vantaggio di figure ritenute dal datore di lavoro più produttive. Molto spesso la nuova situazione familiare della madre-lavoratrice viene usata come scusa per dirle che ‘ha nuove priorità nella vita’ o frasi simili», ha spiegato il legale, che ha anche sottolineato come spesso il datore di lavoro utilizzi strumenti sottili, quali il demansionamento o l’isolamento in ufficio per spingere la lavoratrice a dimettersi volontariamente, ottenendo di fatto il licenziamento che il datore auspica. «Questo, va detto, accade molto spesso: il logoramento psicologico, le pressioni in ufficio e il desiderio di rompere un rapporto lavorativo ormai rovinato spingono la mamma-lavoratrice a ‘piegarsi’ al mobbing. «L’ ‘onere della prova’ in caso di vertenza legale per mobbing è tutto sulla lavoratrice che deve dimostrare con documenti scritti e prove il mobbing subito. Anche per la difficoltà di recuperare le prove, la maggior parte della lavoratrici si accontenta, quando c’è, della cosiddetta ‘buona uscita’, spesso con l’intervento di un legale nella trattativa, e formula volontariamente le dimissioni», conclude l’avvocato Dorenti.

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