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 › Mobbing › Mobbing e discriminazione nella prospettiva attuale – IusInItinere.it

Mobbing e discriminazione nella prospettiva attuale – IusInItinere.it

Redazione Aprile 6, 2019     No Comment    

Mobbing

Mobbing

Nel nostro ordinamento, la tutela antidiscriminatoria e di contrasto al fenomeno del “mobbing” ha registrato una considerevole evoluzione, già a partire dagli anni ’70, grazie ad una spinta propulsiva che in tal senso era stata lanciata dalla legislazione dell’Unione Europea.

Attualmente, l’ordinamento interno, autonomamente prevede una serie di ampliamenti della tutela antidiscriminatoria, che si è anche arricchita di una serie di strumenti istituzionali e giurisdizionali aventi lo scopo di conseguire una completa e reale condizione di parità fra tutti i lavoratori.
Uno dei fenomeni culturali che normalmente risulta come tra i più paradigmatici in relazione all’identificazione di comportamenti aventi natura discriminatoria nei confronti di uno o più lavoratori è la piaga del mobbing. Tale fenomeno,  dalla travagliata storia giuridica, prima di essere normato ed oggetto di disciplina legislativa, è da considerarsi innanzitutto un fenomeno sociologico, potenzialmente in grado di incidere sulla sfera psicofisica del soggetto vittima delle vessazioni perpetrate ai suoi danni e, per le proporzioni assunte a livello mondiale, tale da costituire oggetto di una riflessione sempre attuale  e complessa sulle mutevoli dinamiche psicologiche e sociali legate al mondo del lavoro.

Il Tar Lazio, nel tentativo di fornire una definizione accurata del fenomeno e che fosse il più aderente possibile alla impostazione psicosociologica, ha stabilito che il mobbing (dal verbo inglese “to mob” assaltare, fare ressa, attaccare, assediare), è da intendersi come quell’insieme di condotte continue e sistematiche, atte a sminuire e mortificare il lavoratore nella sua dignità personale e professionale, attraverso il compimento di atti che, leciti o illeciti che siano, inseriti in un contesto di discriminazione e molestie sul luogo di lavoro, sono idonei ad ingenerare nella vittima evidenti danni psicofisici. In tale ottica, quindi, “autore del mobbing può essere chiunque invada sistematicamente la sfera privata della vittima, con azioni che possono dirigersi: a) contro la persona del soggetto da colpire (…); b) contro la sua funzione lavorativa(…); c) contro il suo ruolo(…); d) contro lo status della vittima(…)”.

Esempio piuttosto recente di questo fenomeno è stato riportato dalla sentenza della Cassazione Civile sez. lav. Del 19 febbraio 2019 n. 4815.

Mobbing: un caso esemplificativo

Il sig. Z, dirigente di un pastificio, è stato vittima di reiterate e sistematiche condotte vessatorie, poste in essere dal suo datore di lavoro. Queste si concretizzavano in pubbliche offese in presenza di altri colleghi e impiegati, aventi ad oggetto commenti sulla sua sessualità, ignominiosi appellativi e altre situazioni degradanti.
Sia il Tribunale in primo grado che la Corte d’Appello, nel 2014 , avevano emesso una sentenza di condanna al risarcimento del danno non patrimoniale causato al dirigente a carico della società, poichè per i giudici il dirigente si era trovato impossibilitato a reagire alle offese e ciò ha provocato in lui disturbi di ansia, stress e psicosomatici, provati in via presuntiva.

Contro tale sentenza , la società ha proposto ricorso in Cassazione sostenendo come “la sentenza impugnata avesse accertato la responsabilità datoriale sebbene non fossero stati provati, dal lavoratore onerato, gli episodi descritti nel ricorso introduttivo di primo grado integranti la condotta inadempiente; e come la medesima sentenza non avesse valutato il fatto, decisivo e oggetto di discussione tra le parti, della mancata prova della condotta inadempiente”.

In merito a questo punto la Cassazione ha rilevato plurimi profili di inammissibilità; innanzitutto per il fatto che, seppure gli episodi descritti e collocati nel periodo dal 2003 al 2007 non fossero stati provati, era tuttavia “comprovata la protratta condotta offensiva della parte datoriale, pure allegata dal lavoratore, e relativa alla presunta omosessualità del sig. Z. , sistematicamente apostrofato col termine “finocchio”.

Nel caso di specie, i giudici di merito avevano ritenuto applicabile la disciplina in materia di danno non patrimoniale ex art. 2059 del codice civile in virtù degli “elementi probatori raccolti sul contenuto delle offese, sulla reiterazione, sulle modalità e contesti in cui le stesse venivano arrecate, sulla difficoltà di reazione per essere il destinatario lavoratore subordinato”. E’ a tal fine infatti doveroso rammentare come risulta un dato giurisprudenziale consolidato che i danni non patrimoniali (danno biologico, morale ed esistenziale) vadano risarciti ogni qual volta siano lesi dei beni meritevoli di tutela e costituzionalmente garantiti, anche a prescindere dalla violazione di una specifica norma.

In questa stessa ottica la Cassazione ha esteso la risarcibilità del danno non patrimoniale anche ai casi di licenziamento ingiurioso, tale per la forma o per le modalità del suo esercizio e per le conseguenze morali e sociali che ne derivano, configurandolo come lesivo della dignità e dell’onore del lavoratore licenziato.

Da ciò agevolmente si può ricavare che la responsabilità del mobber è strettamente legata alle lesioni subite dal soggetto vittima dei comportamenti sopra descritti. In ogni caso, la moderna giurisprudenza, sembra preferire una concezione oggettiva del fenomeno e che quindi dia maggior peso all’individuazione di condotte tipiche del mobbing, piuttosto che al dato soggettivo dell’intenzionalità. Alla luce di quanto detto, quindi, l’autore del mobbing sarà considerato responsabile non solo quando si accerti il suo intento persecutorio, ma anche nell’ipotesi in cui l’evento lesivo poteva evitarsi secondo le regole dell’esperienza.

Un importante punto di riferimento in relazione agli indici di identificazione del condotte configurabili come mobbing e alla quantificazione del danno subito, è stato posto in essere dalla Corte di Cassazione con la decisione n. 10037 del 2015. Nel provvedimento, la Corte rigettò il ricorso presentato dal Comune dell’Aquila contro la decisione della Corte d’Appello che aveva confermato il risarcimento del danno nei confronti di una dipendente, in ragione della presenza di sette parametri tassativi di riconoscimento del mobbing.

Questi sette parametri, individuati nel cd. “metodo H. Ege” elaborato nel 2002 e finalizzati alla individuazione, quantificazione e la valutazione del danno da mobbing, sono i seguenti:

1. ambiente lavorativo (il conflitto deve svolgersi sul posto di lavoro);
2. frequenza;
3. durata (i conflitti devono essere in corso da almeno 6 mesi);
4. tipo di azioni (le azioni devono appartenere ad almeno 2 delle categorie del Lipt Hege, questionario elaborato del 1950 da H. Ege*);
5. dislivello tra antagonisti;
6. andamento secondo fasi successive ;
7. intento persecutorio

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