Morire a causa della depressione è possibile. Un punto e virgola il messaggio di speranza lanciato dal non profit contro un male psichico spesso sminuito.
“La depressione è una malattia?” Sono tanti, ancora, a domandarselo e altrettanti a sottovalutarla. Difficile da riconoscere e da contrastare, la depressione è un disturbo dell’umore; più diffuso di quanto si pensi. A soffrirne sono circa 15 persone su 100. “Il disturbo depressivo può colpire chiunque a qualunque età, ma è più frequente tra i 25 e i 44 anni ed è due volte più comune nelle donne adolescenti e adulte. […] Chi ne soffre ha un umore depresso per tutta la giornata per più giorni di seguito e non riesce più a provare interesse e piacere nelle attività che prima lo interessavano e lo facevano stare bene”, spiega l’APC – Associazione di Psicologia Cognitiva.
La storia di Laura (nome di fantasia), dal Belgio, ha fatto tornare a parlare, negli scorsi giorni, di depressione ed eutanasia. Due temi particolarmente delicati. “La vita non è per me. Se potessi scegliere, vorrei una vita sopportabile, ma ho provato di tutto e non ha avuto successo”, le parole passate di bocca in bocca, di media in media, quelle che la 24enne avrebbe pronunciato per giustificare la sua richiesta di eutanasia. Laura soffre di una grave forma di depressione, la vita l’ha portata a convivere con una sofferenza mentale che non l’ha quasi mai lasciata. Un male che, forse perché non fisico e visibile, non è stato mai completamente curato. Un male che, tuttavia, le viene oggi riconosciuto tra le “sofferenze fisiche e psichiche insopportabili” che il Belgio accetta tra le cause di richiesta di eutanasia. Se il codice riconosce l’eutanasia dal 2002, la vicenda ha scosso nel profondo l’opinione pubblica. L’interrogativo che continua ad aleggiare nell’aria è se la depressione possa portare alla scelta di farsi togliere legalmente la vita.
Il non profit ha provato a dare una risposta a una “sofferenza insopportabile” come la depressione attraverso messaggi di speranza lanciati dalle stesse persone afflitte da questo male, ma non solo. Nella primavera del 2013 è nato infatti il “Project Semicolon”, fondato da Amy Bleuel figlia di un padre morto suicida. La traduzione di “Semicolon” è un semplice punto e virgola; un simbolo spesso dimenticato dalla punteggiatura stessa; un simbolo sottovalutato, quasi come la depressione, in molti casi. Un simbolo dal significato forte: un momento di pausa, ma non la fine. Non un punto ma, invece, un intermezzo dopo il quale ripartire. Il movimento dal quale prende le mosse il progetto ha un obiettivo ben preciso: quello di incoraggiare e supportare tutte le persone che stanno combattendo la loro personale battaglia contro la depressione, le dipendenze e le tendenze suicide.
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“A semicolon is used when an author could’ve chosen to end their sentence, but chose not to. The sentence is your life and the author is you.” Un messaggio d’amore che ha fatto il giro del mondo, tanto che sui social le adesioni sono state altissime e si sono trasformate nelle numerose immagini di ragazzi che, quel punto e virgola, lo hanno mostrato come un tattoo. Ben impresso sulla pelle, a ricordare che continuare è possibile, anche dopo uno stop. “Your story is not over yet”, “A simple reminder to stop, take a breath and then continue, don’t rush anything”. Solo alcuni esempi delle foto postate su Tumblr, Instagram, Pinterest e Facebook. Solo alcuni esempi di supporto a un progetto ispirato da un’unica visione, quella dell’amore. Perché persone come Laura non si sentano più sole in questa lotta, perché non si sentano giudicate o incomprese di fronte alla loro difficoltà più grande. E perché la depressione non distrugga più una vita umana tanto da portare alla decisione di porvi fine.