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 › Depressione › Depressione grave e neurostimolazione: necessari altri studi – La Stampa

Depressione grave e neurostimolazione: necessari altri studi – La Stampa

Redazione Luglio 30, 2015     No Comment    

Sembra essere una doccia fredda sull’efficacia della neurostimolazione per il trattamento della depressione grave resistente ai trattamenti farmacologici: questa tecnica non sarebbe così efficace come alcuni risultati incoraggianti avevano lasciato sperare. Uno studio multicentrico, il primo randomizzato in doppio cieco controllato con placebo, non è riuscito a dimostrare i benefici della stimolazione cerebrale profonda (DBS), in termini di una radicale riduzione dei sintomi depressivi tanto quanto i ricercatori si aspettavano. 

Ma andiamo per ordine. La DBS (deep brain stimulation) consiste nell’inserimento in aree profonde del cervello, come i nuclei della base, di alcuni elettrodi collegati ad una sorta di pacemaker che, una volta acceso, permette di stimolare i neuroni e le fibre nervose che li connettono. Per alcune patologie, come il Parkinson, la DBS è estremamente efficace nel far scomparire istantaneamente le rigidità muscolari e i tremori, tipici sintomi invalidanti, anche nei casi non rispondenti ai farmaci. 

Dalla sua introduzione, negli anni Novanta, questa tecnica ha accumulato evidenze cliniche e si è andata via via perfezionando, tanto che il suo uso si è esteso al trattamento di disturbi diversi dalla distonia muscolare. È una tecnica reversibile e modulabile, dunque molto potente. Ma, com’è facile intuire, la neurostimolazione non ha solo degli effetti motori. Infatti, proprio dall’osservazione dei suoi effetti sulle funzioni cognitive frontali e sul comportamento, è nata l’idea di una sua applicazione per il trattamento di altre patologie, come i disturbi ossessivo compulsivi (DOC) e le gravi depressioni farmacoresistenti. E proprio su queste ultime si sono concentrati i ricercatori di cinque centri medici statunitensi (Cleveland Clinic, University of Pittsburgh, University of Pennsylvania, Butler Hospital/Brown Medical School e il Massachusetts General Hospital), sotto la guida dal dottor Darin Dougherty, direttore del Neurotherapeutics al Massachusetts General Hospital e docente della Harvard Medical School di Boston. 

Lo studio, appena apparso sulla rivista Biological Psychiatry, è stato condotto su trenta pazienti con depressione grave, andati incontro all’intervento neurochirurgico per l’impianto degli elettrodi in un’area dei gangli della base – della capsula ventrale e dello striato ventrale (Vc/VS DBS). Questa è la prima sperimentazione a confrontare la stimolazione vera con un trattamento placebo, come si fa per testare la reale efficacia di un farmaco. Durante le prime 16 settimane dello studio, 15 soggetti sono stati sottoposti al vero trattamento di neurostimolazione (studio randomizzato in doppio cieco controllato con placebo), mentre negli altri 15 partecipanti lo stimolatore rimaneva spento (finta stimolazione). In seguito, i soggetti sono stati seguiti nei rispettivi centri per un paio d’anni, andando incontro ai trattamenti ritenuti opportuni (26 pazienti su trenta hanno deciso di proseguire con la neurostimolazione).  

Per valutare l’efficacia del trattamento i ricercatori si sono concentrati sugli effetti registrati durante la fase in doppio cieco. Era stato ipotizzato un miglioramento decisivo, ovvero una riduzione della depressione del 50%, valutata adottando la scala psichiatrica MADRS. Ma l’analisi dei dati non è riuscita a dimostrare una maggiore efficacia della neurostimolazione vera rispetto a quella “finta” (placebo). I risultati negativi riguardano dunque questa analisi, tuttavia sul lungo periodo e considerando anche altri parametri è stato registrato un certo beneficio. Le ipotesi possibili sono molte: le aspettative erano forse troppo alte, l’efficacia reale risente della combinazione di trattamento farmacologico e di neurostimolazione e del sito di stimolazione.  Per questo, nel commentare i risultati diversi da quelli attesi, gli autori sostengono che ulteriori studi clinici sono necessari, così come l’introduzione di alcune modifiche: aumentare il numero di soggetti e il periodo di tempo considerati, perfezionare il sito di impianto e di stimolazione, ma anche cambiare i criteri di valutazione clinica di miglioramento adottati, proprio alla luce della gravità dei casi considerati.   

Quindi, forse non si tratterebbe quindi un fallimento della neurostimolazione, come si legge in un commento di accompagnamento allo studio firmato dal professor Thomas Schlaepfer della Johns Hopkins University e del University Hospital di Bonn in Germania, quanto piuttosto dell’insuccesso di alcuni studi. Come a dire che la fiducia nell’efficacia della tecnica non si è spenta ma la ricerca continua.  

Twitter @nicla_panciera  

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Autore: Redazione

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