
ADHD comportamenti devianti
Come descritto da ormai numerose ricerche, l’ADHD -Attention Deficit Hyperactivity Disorder- è un disturbo del neurosviluppo che include iperattività, impulsività e disattenzione: tali caratteristiche si mantengono dall’infanzia all’età adulta, portando a comportamenti devianti, per questo è definito “life-long”
L’età di esordio si colloca intorno ai 7 anni e per la diagnosi, i sintomi devono protrarsi per almeno sei mesi (Woicik et al., 2017). A livello comportamentale, chi soffre di questo disturbo presenta verbosità, difficoltà a stare seduto, irritabilità, tendenza a perdere o dimenticare le cose. A livello emotivo, invece, emergono spesso bassa autostima, ansia e umore depresso.
Gli studi che associano ADHD e comportamenti devianti in età adulta
Ma quali sono questi comportamenti devianti che può manifestare l’ADHD? Sono frequenti diagnosi psichiatriche nei genitori, difficoltà famigliari (come problemi economici e litigi), un percorso scolastico caratterizzato da risultati scadenti o frequenti discussioni con gli insegnanti. Questi bambini e ragazzi vivono frequenti problematiche nel percorso scolastico e poi lavorativo, manifestano un elevato rischio di condotte sessualmente rischiose, con gravidanze indesiderate, utilizzo di sostanze, problemi relazionali e guida pericolosa, con frequenti incidenti stradali.
Il disturbo si presenta spesso in comorbilità, ad esempio con disturbi d’ansia, tic, ritardo cognitivo, disturbo oppositivo provocatorio e il cosiddetto disruptive mood dysregulation disorder. Il fatto che ci sia comorbilità con disturbi esternalizzanti o internalizzanti cambia molto il modo in cui l’ADHD si presenta. In adolescenza, possono invece manifestarsi in modo concomitante disturbo della condotta, depressione maggiore, disturbo bipolare, dipendenza da sostanze e un iniziale sviluppo di disturbi di personalità (Usami; 2016).
Con una prevalenza del 5% nei minori di 18 anni e una persistenza dei sintomi in età adulta tra il 2,5 e il 5% (Polanczyk et al., 2007), l’ADHD determina frequentemente nei genitori di questi bambini distress, problematiche lavorative, sentimenti di tristezza e impotenza per la situazione del figlio, disagio nello svolgere insieme al minore attività pubbliche come lo shopping; sono frequenti le discussioni, le indicazioni del caregiver non vengono seguite creando un continuo “disturbo” della routine quotidiana (Anderson et al., 1987). A causa dei suoi esiti devianti, in adolescenza, il disturbo rappresenta peraltro un rischio per altre problematiche psicosociali, con sintomi internalizzanti, alimentari o legati alle sostanze per le ragazze, di tipo antisociale nei ragazzi (Selinus et al. 2016)
Queste informazioni si associano al riscontro di comportamenti delinquenziali in giovane età (Giannotta & Rydell, 2015; Zeola et al., 2017), disturbi antisociali e correlati a sostanze (Hechtmann & Weiss, 1986) e ad un’elevata percentuale di diagnosi ADHD nella popolazione detenuta, sia adulta (Woicik, et al., 2017) che adolescente (Gosden et al., 2003). Barkley, Fisher, Smallish e Fletcher (2004) hanno valutato i registri degli arresti dello Stato del Wisconsin, riscontrando che le persone con diagnosi di ADHD erano un numero significativamente maggiore rispetto a quello di controllo. Altre patologie frequenti nella popolazione detenuta sarebbero disturbo della condotta, psicosi, abusi e dipendenze da sostanze e depressione (Hellenbach et al, 2017). Non tutti i reati però sembrano essere ugualmente commessi da chi ha questo tipo di diagnosi: infatti, la stima di reati sessuali commessi da persone ADHD è del tutto analoga a quella dei controlli (Mannuzza et al., 2008).
Studi che affermano l’inesistenza dell’associazione con comportamenti devianti
Esiste anche un filone di studi che afferma il contrario, ossia l’assenza di un’associazione tra comportamenti devianti in età adulta; tra gli altri, si rimanda a Mordre e colleghi (2011), i quali sostengono come l’unica connessione sarebbe quella con il disturbo della condotta, caratterizzato da comportamenti aggressivi, distruttivi, disonesti, non rispettosi dell’autorità e manipolatori, al massimo caratterizzato da sintomi di iperattività.
Questa tesi troverebbe parziale conferma nei risultati di Giannotta e Rydell (2015), che legano l’antisocialità a sintomi impulsivi / iperattivi tra i 10 e 15 anni e problematiche più associate all’abbandono scolastico per quanto riguarda la disattenzione. Tale distinzione fa riferimento alle tre tipologie di ADHD comunemente riconosciute: disattento, iperattivo/impulsivo e combinato.
Giannotta e Rydell (2015) si sono occupati di capire perché non tutti i giovani con diagnosi di ADHD intraprendano una carriera delinquenziale, ipotizzando un ruolo dell’ambiente nel mediare tale esito. In particolare, l’esistenza di un parenting disfunzionale, la percezione di un rifiuto materno e una disciplina poco autorevole lo faciliterebbero. Un’ipotesi di questo tipo era stata avanzata già diversi anni prima da Rutter (1978), il quale spiegava come un parenting positivo, un mantenimento di contatto emotivo con il bambino e poi con l’adolescente, e l’evitamento del conflitto diminuivano di fatto i comportamenti devianti in età adulta come il rischio di sviluppare un disturbo della condotta e agire comportamenti delinquenziali.
ADHD: quando diventano vittime di comportamenti devianti
Il coinvolgimento in comportamenti devianti non è stato indagato solo dal punto di vista di chi li agisce, ma anche da quello di vittima: secondo Becker e collaboratori (2017), il 57% di minori con diagnosi ADHD subisce episodi di vittimizzazione, come esclusione dal gruppo, da eventi sociali o dalle conversazioni tra pari, con conseguenti sintomi ansiosi, depressione e bassa autostima. L’aspetto relativo al bullismo apre di fatto nuovamente il dibattito sul confine tra ADHD e disturbo oppositivo provocatorio / della condotta; se si parla di comorbilità, diversi studi fanno riferimento ad aspetti genere specifici, per cui sarebbe agito da maschi con connotazioni fisiche -vere e proprie aggressioni-, in contesti con ampia influenza da parte del gruppo dei pari (Fite et al., 2014).
In definitiva, il tema appare presente anche in culture molto diverse e comporta evidenti costi sociali; quali sono allora le possibilità di trattamento, anche dei comportamenti devianti?
Il trattamento psicologico dovrebbe includere un lavoro sullo sviluppo di un coping più funzionale per la gestione delle manifestazioni dell’ADHD, in particolare il discontrollo e l’acting-out, inoltre lo screening dovrebbe essere svolto precocemente, per evitare un peggioramento della sintomatologia in seguito a provvedimenti giuridici e misure punitive in giovane età (Chae, Jung & Noh, 2001). Per chi invece già manifesta comportamenti devianti in giovane età, è necessario un intervento preventivo di presa in carico e numerosi follow-up, per evitare coping più disfunzionali come l’utilizzo di sostanze (Harty et al., 2013).
Nel caso di giovani che manifestino sia sintomatologia ADHD che DOP, o inseriti in contesti a rischio di comportamenti devianti (per la presenza di gruppi di coetanei con problematiche affini), sarebbe importante un lavoro orientato alla prevenzione e un intervento specifico su bullismo e vittimizzazione (Satterfield et al., 2007).
Nel caso di giovani che hanno commesso un reato, viene sottolineata la necessità di continuare gli studi, che hanno funzione protettiva nel reinserimento, anche con modalità parzialmente diverse da quelle “canoniche”, secondo le necessità previste dalla situazione clinica del soggetto (Young et al.2009). Allo scopo di ridurre la recidiva, cioè una ricaduta nel reato, Zeola e colleghi (2017) suggeriscono un miglioramento degli screening da effettuarsi quando i giovani sono coinvolti in procedimenti giuridici. Ciò avrebbe chiaramente lo scopo di differenziare il trattamento a seconda delle problematiche specifiche.
È evidente che un ambiente supportivo e buone capacità cognitive possano compensare la manifestazione di sintomi ADHD, ma ciò non è sufficiente in tutte le fasi della vita e soprattutto non lo è con l’aumento delle richieste in ambito accademico e sociale (Selinus et al., 2016): pare quindi essenziale, ma non sufficiente un intervento che includa la famiglia.